LE RAPPRESENTAZIONI DEI PESCI
I PIATTI DA PESCE

La forma del piatto da pesce è già di per sé caratteristica e implica che nella cavità centrale si raccogliesse una certa quantità di ciò che avrebbe insaporito il cibo, posato sulla tesa.
Che l’alimento fosse il pesce è comprovato dalla decorazione che abbelliva il piatto; che si trattasse di un condimento o una salsa più o meno liquida lo si può ragionevolmente supporre.

L’evoluzione del piatto da pesce attico prende le mosse dal cosiddetto Gallatin Plate (della fine del VI sec. a.C.), attraversa il V secolo con pochi esemplari e -agli inizi del IV sec. a.C.- giunge alla forma canonica, assai bene documentata a Spina.
Un ruolo di transizione verso quest’ultima – sul finire del V secolo – avrebbe avuto un piatto (esso pure presente a Spina dove viceversa è assente il cosiddetto, più antico Gallatin Plate) con tesa che si incurva verso il centro, che non sempre è munito di cavità oppure che è dotato di una minuscola depressione e che presenta sul bordo una decorazione non figurata (linee e punti).
Lasciata ogni sperimentazione, il piatto da pesce attico (figurato e a vernice nera) degli inizi del IV sec. a.C. trova una ottima accoglienza sul mercato, viene esportato per circa un ventennio dall’un capo all’altro del Mediterraneo e nel Mar Nero e, successivamente, viene “copiato” dagli atéliers ceramici dislocati in Sicilia e nell’Italia meridionale, che ne continuarono la produzione fino agli ultimi decenni del IV secolo sia nella redazione figurata sia in quella a vernice nera.
In realtà, se vi è accordo nel riconoscere al piatto da pesce di IV secolo la funzione di stoviglia da tavola per portate di pesce, il parere sull’uso del cd. Gallatin Plate e dei suoi rari discendenti di V secolo è discorde poiché vi è chi ritiene che fossero utilizzati nel kottabos, un gioco consistente nel farli affondare in un bacino riempito d’acqua centrandoli con getti o spruzzi.

Nella prassi quotidiana, uno stesso oggetto o uno stesso vaso poteva servire per usi anche assai diversi.
Quale nome avesse ad Atene il piatto da pesce non sappiamo, dovendosi accantonare l’ipotesi, basata su una doppia iscrizione in caratteri greci graffita sul retro di un piatto da pesce a vernice nera di Olinto (Calcidica), che esso fosse l’oxybaphon.
Secondo le testimonianze letterarie l’oxibaphon era un bicchiere, un vaso per bere.
Non va tuttavia trascurato come il nome sia un composto di oxos (l’aceto e il verbo baptein, immergere): da ciò conseguirebbe con verosimiglianza il fatto che il vaso così denominato appartenesse alla categoria delle suppellettili da tavola destinate all’aceto e/o ai suoi derivati.
In altre parole, a quelle salse o a quei condimenti che si ottenevano miscelando liquidi diversi quali olio, garum e aceto per ricavarne una sorta di mostarda o di condimento altrettanto piccante e che rendevano più gustoso il cibo, a seconda che fosse crudo oppure cotto.
Tra queste suppellettili, nei corredi tombali di Spina sono assai frequenti varie fogge di oxides (più comunemente chiamate askoi); figurando nei medesimi corredi dotati anche dei piatti da pesce, la loro presenza comprova l’ipotesi che l’ uso fosse prevalentemente legato alla alimentazione.
E’ viceversa attestato proprio a Spina, in una accezione altrove raramente documentata, pinax (tavola, asse di legno, ma non solo di legno) per piatto: sul retro di un piatto attico con alto piede e tesa decorata da una corona di foglie dal corredo della Tomba 324 del dosso B di Valle Pega databile nella seconda metà del V sec. a.C. appare infatti graffito il termine pina (con caduta della lettera finale).

Il gruppo di piatti da pesce a figure rosse ritrovati nei corredi della necropoli di Spina è costituito da 21 esemplari attici, databili tutti nel primo ventennio del IV sec. a.C., e da 1 esemplare più tardo (350-320 ca. a.C.: Tomba 7 del Dosso C di Valle Pega) proveniente da una manifattura apula, come stanno a indicare le sue particolarità tettoniche, la tipica decorazione della cavità centrale, la corsività del disegno.
Assommandoli ai piatti da pesce a vernice nera, si ottiene in complesso un numero di tutto rispetto: un segno palese dell’apprezzamento che godettero tra gli abitanti della città siffatte stoviglie e del mutare di alcune consuetudini connesse alla alimentazione, fatti dai quali non va disgiunto il contemporaneo diffondersi (nel luogo a ciò più appropriato, l’abitato; la necropoli ne ha restituito un solo esemplare) della lopas, un tegame che introdusse anche per il pesce metodi di cottura dapprima poco consueti o praticati in altra forma.

a cura di Fede Berti