Sommario:
1. Archeologia preventiva: una prassi già ampiamente in uso
2. La normativa precedente: dall'assenza di previsioni all'apertura operata dal Codice
3. Le modalità operative attualmente in uso
4. Le novità introdotte dalla legge. La procedura preliminare
4.1. La strumentazione proposta
4.2. I soggetti
4.3. Una valutazione sul valore e sull'efficacia della procedura preliminare
5. La parte esecutiva della procedura
6. Considerazione conclusive
1. Archeologia preventiva: una prassi già
ampiamente in uso
Il tema dell'archeologia preventiva non è certo una novità per una
disciplina che, ormai da decenni, ha riservato ampio spazio a tale problematica,
sul fronte teorico e metodologico come su quello più strettamente operativo. Da
molto tempo infatti gli archeologi direttamente impegnati sul campo si sono
posti il problema di conciliare le esigenze di tutela di un patrimonio - e
quello italiano è come è noto tra i più rilevanti del mondo - con le esigenze
operative delle attività che comportano lavori di scavo, da quelle edilizie a
quelle estrattive fino alle grandi opere infrastrutturali.
Le concrete esperienze cui fare riferimento si erano svolte soprattutto nei
paesi dell'Europa centro-settentrionale, dove grandi lavori di archeologia
preventiva erano stati rappresentati, nel secondo dopoguerra, dagli scavi
collegati con la realizzazione di ampliamenti della metropolitana di Londra.
Anche in Italia le prime sperimentazioni in tal senso avvengono con l'intervento
di archeologi inglesi, prima a Pavia e poi negli scavi preventivi per la
realizzazione del tribunale di Verona. Seguono, negli anni ottanta del novecento
e a seguito del potenziamento degli organici delle soprintendenze ai Beni
archeologici, attività di prevenzione più sistematiche in tutta Italia, con
interventi sostenuti sia da committenti privati che pubblici. Grande banco di
prova per la verifica ed il consolidamento di prassi operative già sperimentate
su ambiti territoriali più limitati sono stati infine i lavori per la
realizzazione della linea ferroviaria ad alta velocità, che hanno visto
svolgersi numerosissime indagini preventive ed interventi di scavo sistematici
ed estensivi dalla Lombardia fino alla Campania, interventi tuttora in corso in
alcune aree, fra cui l'Emilia-Romagna.
E' dunque ormai prassi corrente, da parte delle Soprintendenze per i Beni
Archeologici, coordinare interventi di scavo finalizzati alla realizzazione di
opere pubbliche e private. Si può anzi dire che tali interventi, gestiti dalle
soprintendenze indirettamente e sotto diverse forme ma con committenza esterna,
rappresentano la stragrande maggioranza degli scavi archeologici condotti oggi
in Italia.
Tuttavia si tratta di scavi che, dopo il recupero scientifico di tutti i dati
stratigrafici e strutturali, necessariamente o prevedono la rimozione dei
contesti rinvenuti oppure richiedono, alla loro conclusione, modifiche
progettuali anche rilevanti per consentire la conservazione in loco totale o
parziale dei resti rinvenuti. In alcuni casi, peraltro abbastanza rari, è stato
necessario abbandonare del tutto la realizzazione prevista a causa del
rinvenimento di beni archeologici strutturali di tale rilevanza da non
consentire neppure operazioni di smontaggio scientifico e ricollocazione.
La legge 25 giungo 2005, n. 109 si inserisce quindi opportunamente a colmare un
vuoto normativo e, nel fornire una legittimazione ad interventi imposti in
questi anni dalle stesse esigenze di tutela del patrimonio archeologico,
contribuisce nel contempo a regolamentare una situazione di fatto e una prassi
comportamentale abituale di tutte le soprintendenze archeologiche.
2. La normativa precedente: dall'assenza di previsioni all'apertura
operata dal Codice
In effetti, fino alla promulgazione del Codice per i beni culturali e del
paesaggio, con decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, le modalità previste
dalla legge 1 giugno 1939, n. 1089 per lo svolgimento degli scavi archeologici
si riducevano a due: gli scavi promossi direttamente dallo Stato tramite il
ministero per i Beni e le Attività culturali (all'epoca ministero
dell'Educazione) - cioè inseriti a bilancio nella programmazione ordinaria - e
quelli affidati in concessione, per lo più ad istituti universitari o altri
organismi scientifici. Il testo della 1089 (ripreso quasi integralmente dal
Testo Unico dei beni culturali, adottato con decreto legislativo 29 ottobre
1999, n. 490, che ha confermato questa situazione con lievi modifiche) prevedeva
in buona sostanza scavi archeologici aventi come unico fine la ricerca
scientifica, cioè il recupero di informazioni storiche in senso ampio, e
l'acquisizione di beni al patrimonio dello Stato. In questo senso anche i
concessionari agivano in realtà come un braccio dell'amministrazione, alle cui
disposizioni erano (e sono) sottoposti, e che poteva sostituirsi agli stessi in
qualsiasi momento.
Con l'art. 28, comma 4, del Codice, che introduce la possibilità per il
soprintendente di disporre l'esecuzione di sondaggi archeologici a spese della
committenza in caso di lavori pubblici, per la prima volta veniva in qualche
modo rovesciata la prospettiva fino a quel momento seguita e ribadita nello
stesso Codice agli artt. 88-89. Al contrario veniva sancita la possibilità, e -
anzi - la necessità, di svolgere scavi a livello preventivo e quindi finalizzati
a scopi assolutamente diversi, come la realizzazione di opere pubbliche, in una
logica di tutela del patrimonio archeologico e in un'ottica di valutazione di
interessi concorrenti e contemperati.
3. Le modalità operative attualmente in uso
La prassi attualmente in uso prevede che le soprintendenze per i Beni
archeologici esaminino, per un parere preventivo, la grande maggioranza dei
progetti realizzati dagli enti pubblici, progetti solo in rari casi corredati da
una valutazione dell'impatto archeologico redatta anche sulla base di quanto
previsto dalla legge 11 febbraio 1994, n. 109.
Per quanto riguarda i lavori di scavo previsti da soggetti privati subentra
spesso la mediazione delle amministrazioni comunali, che in molti casi
(certamente in Emilia Romagna, ma, a quanto mi consta anche in Veneto,
Lombardia, Lazio, Marche è in vigore una prassi simile) hanno utilizzato i
poteri autonomi loro conferiti in campo di programmazione urbanistica per
disporre che gli interventi di scavo localizzati in aree di presunto interesse
archeologico siano sottoposti a visto preventivo da parte della soprintendenza.
In alcuni casi di collaborazione particolarmente favorevole (ad es. con il
comune di Modena) sono state redatte carte di cd. "rischio archeologico" poi
inserite in piano regolatore, e gli organi tecnici comunali (di solito i musei)
svolgono attività istruttoria preventiva, i cui risultati vengono poi trasmessi
alla soprintendenza per i Beni archeologici per il parere definitivo e le
eventuali prescrizioni, secondo un procedimento che si avvicina molto a quanto
oggi previsto con la legge in esame.
Il decreto legge 26 aprile 2005, n. 63, come convertito dalla Legge 109/2005
interviene per l'appunto in questa materia definendo e regolamentando non solo
la fase meramente preliminare (art. 2-ter), ma fornendo anche linee d'indirizzo
per la parte esecutiva (art. 2-quater). Credo sia opportuno commentare
separatamente i due articoli.
4. Le novità introdotte dalla legge. La procedura preliminare
L'articolo 2-ter (Verifica preventiva dell'interesse archeologico) al comma
1 fa esplicito riferimento alle opere sottoposte alla normativa della l.
109/1994 (cd. Merloni) e del decreto legislativo 20 agosto 2002, n. 190.
Viene sancita la necessità di trasmettere alla soprintendenza territorialmente
competente, prima della loro approvazione, copia dei progetti delle opere. A
questi vanno allegati gli esiti delle indagini geologiche ed archeologiche
previste all'art. 18 comma 1 lettera d) del regolamento adottato con decreto del
Presidente della Repubblica 21 dicembre 1999, n. 554, fatta eccezione solo per
le opere che non comportino nuove edificazioni o che non superino comunque in
scavo le quote delle opere esistenti, per le quali non necessita tale
documentazione.
Sul piano archeologico si tratta di una fase del tutto preliminare, che prevede
quattro diversi tipi di operazioni elencati nell'art. 2-ter, tutte non
comportanti attività di scavo:
1) la raccolta dei dati di archivio e bibliografici, cioè delle conoscenze
"storiche", mediante una ricerca che in parte si svolge comunque all'interno
delle soprintendenze, gli archivi delle quali conservano spesso informazioni e
documentazione ancora inedite;
2) le ricognizioni di superficie sulle aree interessate dai lavori: si tratta
del cosiddetto survey, che prevede la raccolta sistematica dei reperti portati
alla luce stagionalmente nel corso delle arature o in sezioni esposte negli
scassi del terreno naturali o artificiali (fossati, cave ecc...);
3) la "lettura geomorfologica del territorio", vale a dire una valutazione
interpretativa delle caratteristiche fisiche delle aree coinvolte in relazione
alle loro potenzialità insediative nel corso di tutto il periodo antico;
4) la fotointerpretazione (prevista però esclusivamente per le opere "a rete"),
cioè lo studio delle anomalie individuabili tramite la lettura delle fotografie
aeree disponibili o realizzabili ad hoc.
I risultati di queste operazioni, i cui costi saranno coperti in base a quanto
previsto dalla l. 109/1994, art. 16, comma 7, e dal d.p.r. 554/1999, art. 18,
devono essere "raccolti, elaborati e validati" da esperti appartenenti a
"dipartimenti archeologici delle università" ovvero da soggetti provvisti di
laurea e specializzazione in archeologia o da dottorati in archeologia.
Con il comma 2 viene istituito presso il ministero un elenco degli istituti
universitari e dei soggetti in possesso della necessaria qualificazione
(evidentemente abilitati a redigere e validare la documentazione delle indagini
archeologiche di cui al comma 1). Entro 90 giorni dalla data di conversione in
legge del decreto si dovrà provvedere a determinare i criteri per la tenuta
dell'elenco "sentita una rappresentanza dei dipartimenti archeologici
universitari". A tal fine vengono anche previsti stanziamenti a bilancio.
Il comma 3 chiarisce che il soprintendente, una volta individuato un rischio
archeologico delle aree interessate dai lavori sulla base della documentazione
trasmessa e "delle ulteriori informazioni disponibili", può richiedere
motivatamente la sottoposizione ad un'ulteriore fase di indagine descritta
all'art. 2-quater. Ha novanta giorni per pronunciarsi in via definitiva, ma,
entro dieci giorni dal ricevimento della documentazione, può richiedere
integrazioni ed approfondimenti, sospendendo i termini (comma 4). Tale richiesta
deve segnalare "con modalità analitiche" l'incompletezza della documentazione.
Non è sufficiente quindi una richiesta generica di integrazione o
approfondimento.
Il comma 5 prevede la possibilità di ricorso amministrativo contro la richiesta
del soprintendente di attivare le procedure previste dall'art. 2-quater, e ciò
in base all'art. 16 del Codice dei beni culturali e del paesaggio.
Il comma 6 considera l'eventualità, come vedremo a mio avviso piuttosto remota,
che il soprintendente non richieda l'attivazione delle procedure dell'art.
2-quater, oppure che tali procedure diano esito negativo. In tali casi è
comunque prevista la possibilità di richiedere l'esecuzione di sondaggi
archeologici, ma solo a patto che vengano acquisite nuove informazioni o
emergano resti archeologici. Contestualmente è però necessario avviare
l'istruttoria relativa al procedimento di verifica o alla dichiarazione di
interesse del bene culturale ex artt.12 e 13 del Codice, e darne relativa
comunicazione.
Restano escluse dalle procedure della legge in esame (comma 7) le aree e i
parchi archeologici di cui all'art. 101 e le zone d'interesse archeologico ex
art. 142 del Codice, per le quali vigono le disposizioni già contenute in
quest'ultimo, nonché le opere i cui progetti preliminari siano già stati
approvati al momento dell'entrata in vigore della legge (comma 8). L'art. 101
definisce genericamente le zone archeologiche, senza precisare se statali o no,
ma probabilmente il legislatore sottintende la presenza in ogni caso di un
vincolo e comunque di una situazione in cui fare ulteriori ricerche sia
superfluo; il dettato del comma 7 è un po' ambiguo e, in via ipotetica, qualcuno
potrebbe pensare di essere esentato dalla comunicazione alla soprintendenza
della progettazione riferita a queste aree.
4.1. La strumentazione proposta
La documentazione raccolta secondo la procedura prevista al comma 1 non
consente in realtà di pervenire in nessun caso ad una valutazione certa; per
meglio dire, permette di ipotizzare la presenza indiziaria di resti archeologici
genericamente riferibili a forme di insediamento, ma, anche laddove i dati siano
carenti o del tutto assenti, non autorizza - se non molto raramente - ad
escludere a priori un rischio di tipo archeologico.
Esaminiamo nel dettaglio le quattro operazioni previste.
1) La raccolta di dati bibliografici e d'archivio fornisce di norma informazioni
relative a quanto già noto in passato; inoltre, fino ad un periodo molto recente
si tratta per lo più di notizie generiche e poco affidabili, necessariamente da
sottoporre al vaglio di approfondimenti diretti sul terreno.
2) Le ricerche di superficie costituiscono invece uno strumento di indagine
archeologica preventiva affidabile, se condotte in modo sistematico e con
metodologie corrette. Tuttavia non rappresentano uno strumento risolutivo, sia
per la scarsa incidenza statistica delle possibilità di controllo rispetto alla
globalità del territorio nazionale, sia per le incertezze interpretative insite
nelle loro risultanze. Da un lato infatti, oltre alla limitazione imposta dalla
necessità di procedere alle ricognizioni solo dopo le arature e quindi solo in
alcuni momenti dell'anno, è da rilevare la sussistenza di aree - ad esempio
quelle di montagna o quelle molto urbanizzate - non controllabili in quanto non
soggette a coltivazione intensiva (e la percentuale dei terreni arati pare
ammonti ogni anno a circa un terzo del territorio). D'altro canto, la mera
identificazione di un sito archeologico tramite i reperti portati in luce
dall'aratro, non garantisce circa la conservazione dell'intera stratigrafia,
conservazione da verificare mediante sondaggi mirati: l'esperienza dimostra
infatti che molti insediamenti considerati importanti in base alla quantità e
alla densità dei reperti recuperati in superficie risultano poi, al momento
dello scavo, quasi completamente cancellati dai precedenti lavori agricoli.
3) La lettura geomorfologica del terreno è soggetta a modelli interpretativi
generali che possono dare solo indicazioni sui presumibili orientamenti degli
assetti insediativi di un determinato territorio; in alcuni casi essa può però
fornire alcune informazioni preziose per valutazioni in negativo. E' il caso
dello studio dei diversi percorsi fluviali, anche sepolti, e delle coperture
alluvionali.
4) La fotointerpretazione aerea può certamente aiutare ad individuare
l'estensione di macroevidenze archeologiche relativamente superficiali
corrispondenti a strutture edilizie urbane di età romana e medioevale,
insediamenti rurali estesi (ville romane), strutture in negativo (fossati di
insediamenti pre-protostorici o medioevali); è invece molto meno efficace nel
caso di insediamenti di minore rilevanza "monumentale", caratterizzati da
strutture più labili, oppure posti a profondità maggiore.
4.2. I soggetti
La legge identifica poi i soggetti in grado di elaborare questa
documentazione (da allegare ai progetti preliminari delle opere) nei
Dipartimenti archeologici delle Università e nei laureati provvisti di
specializzazione in archeologia o di dottorato in archeologia. Si tratta
innanzitutto di categorie non chiaramente determinate. A parte infatti
l'utilizzo di un termine piuttosto generico ("Dipartimenti archeologici") per
entità che possono assumere le più svariate denominazioni (Scienze
dell'Antichità, Scienze storiche del mondo antico, Scienze della Terra, Storia
dell'arte...), le restanti indicazioni sembrano essere ancora riferite al
vecchio ordinamento universitario, dal momento che quello attuale prevede come è
noto la distinzione tra una laurea triennale e una successiva laurea
specialistica biennale, mentre a quanto mi risulta, le vecchie Scuole di
specializzazione sono ancora in via di ricostituzione.
Anche per quanto riguarda i soggetti provvisti di "dottorato in archeologia",
sussiste qualche problema di identificazione, dal momento che le discipline
archeologiche prevedono molte specializzazioni cui i dottorati stessi fanno
riferimento: saranno dunque considerati qualificanti anche i titoli di dottore
in topografia, etruscologia ed archeologia italica, preistoria ecc...?
C'è infine da aggiungere che almeno una delle operazioni richieste, l'indagine
geomorfologica, è tradizionalmente compito dei laureati in geologia, una figura
professionale assolutamente non contemplata dalla legge.
Sciogliere questi dubbi sarà probabilmente precisa incombenza di chi redigerà
presso il ministero per i Beni e le Attività culturali l'elenco degli Istituti
universitari e dei soggetti abilitati previsto al comma 2. Anche qui non mancano
i problemi: gli Istituti universitari infatti non esistono pressoché più,
sostituiti dai Dipartimenti: probabilmente si tratta di un refuso. Quanto agli
stessi Dipartimenti archeologici, la cui rappresentanza dovrebbe essere sentita
per determinare i criteri di tenuta degli elenchi stessi, c'è da chiedersi come
questa sarà costituita e a che titolo: con un'elezione interna o tramite una
scelta autonoma del ministero? E che effettivo ruolo poi ricoprirà, dal momento
che per "sentita" sembrerebbe di dover intendere che il ministero redige
autonomamente gli elenchi e poi li sottopone ad un parere non vincolante di tale
"rappresentanza"? Altrettanto oscure appaiono infine le modalità di
partecipazione per gli stessi fini di tutti quei non meglio determinati
"soggetti interessati".
Un altro punto mi sembra importante: il comma uno indica, come soggetti
qualificati "i dipartimenti..., ovvero i laureati" e dottorati. Credo che
quell'ovvero, come spesso nel linguaggio giuridico, non equivalga ad "ossia",
bensì a "oppure" (è usato nello stesso senso nel comma 6, riga 2), tanto è vero
che anche nel comma 2 si parla dell'elenco degli istituti... e dei soggetti in
possesso di adeguata qualifica.
Quindi negli elenchi saranno compresi gli istituti universitari in qualità di
entità "istituzionale" dotata di proprio personale e di propri mezzi tecnici,
più i soggetti singoli in possesso di qualifica. Ma come faranno i singoli ad
entrare nell'elenco?
Il comma sembra frutto di un compromesso e presenta incongruenze: una volta
riconosciuti nei laureati in archeologia (s'intende in lettere con tesi in
archeologia o i nuovi laureati "triennali" in archeologia?) i soggetti abilitati
a redigere la documentazione, che bisogno c'è di ulteriori specificazioni? E'
evidente che i possessori di dottorato e gli specializzati sono in possesso di
laurea ed è probabile che negli organici dei Dipartimenti di archeologia i
laureati siano molti.
Quanto al ruolo specifico delle soprintendenze, parrebbe che tutte le operazioni
previste in questa fase non richiedano la partecipazione attiva degli uffici cui
la documentazione progettuale dovrà essere inviata. Ma, nonostante questi ultimi
non siano poi più menzionati, è da rilevare che almeno una delle attività
previste per questa fase preliminare, quella delle indagini di superficie, esige
un provvedimento di autorizzazione o concessione in base agli artt. 88 e ss. del
Codice. Inoltre, come già detto, le ricerche storiche contemplano una
indispensabile fase da svolgersi negli archivi delle soprintendenze, richiedendo
dunque la peraltro dovuta collaborazione delle stesse.
4.3. Una valutazione sul valore e sull'efficacia della procedura
preliminare
I tempi concessi al soprintendente per lo svolgimento della procedura
sembrano congrui, tenuto conto della possibilità di sospendere i termini, e
soprattutto del fatto che è molto improbabile che non venga richiesto il
passaggio alla seconda fase (quella di cui all'art. 2-quater). Il motivo è assai
semplice: come si è evidenziato, nessuna delle indagini previste è realmente
risolutiva, e soprattutto consente di ritenere probante l'argumentum ex silentio.
In sostanza, se le ricerche d'archivio, bibliografiche, di superficie e le
tecniche di fotointerpretazione possono certamente individuare, con buoni
margini di sicurezza, aree di interesse archeologico, non possono al contrario
provare che le aree per cui mancano informazioni siano prive di resti
archeologici.
Dal punto di vista strettamente archeologico, la valutazione complessiva è che
la procedura preliminare prevista dall'art. 2-ter risulti più adeguata per opere
di grande impatto territoriale (sul modello, per intendersi, dei lavori per
l'alta velocità ferroviaria - la cosiddetta Tav -, che infatti hanno seguito un
percorso simile), piuttosto che per interventi di carattere urbano (parcheggi
interrati, linee di metropolitana, ...), localizzati in contesti ambientali
sfavorevoli alla maggior parte delle operazioni previste e infine incidenti su
situazioni pluristratificate di ardua decifrazione senza dati di verifica
diretta.
In effetti, si nota la mancanza di almeno un'operazione che in questi casi
risulta molto spesso dirimente. Si tratta dei carotaggi, previsti solo nella
procedura di cui all'art. 2-quater, ma che invece, analizzati da un
geoarcheologo (figura evidentemente sconosciuta a chi ha redatto la legge), già
in questa fase possono restituire informazioni determinanti sulla potenza di
stratigrafia antropica conservata.
5. La parte esecutiva della procedura
L'art. 2-quater (Procedura di verifica preventiva dell'interesse
archeologico) al comma 1 precisa che questa procedura è subordinata
all'"emersione di elementi archeologicamente significativi" nell'esito della
parte precedente, e si svolge sotto la direzione della soprintendenza
archeologica (si deve intendere evidentemente ai beni archeologici)
territorialmente competente, con oneri a carico della stazione appaltante (comma
5).
La procedura in questione si articola in due fasi:
a) "integrativa della progettazione preliminare", che prevede: carotaggi,
prospezioni geofisiche e "geochimiche", saggi archeologici a campione;
b) "integrativa della progettazione definitiva e esecutiva", con esecuzione di
sondaggi e scavi in estensione.
La conclusione delle fasi di indagine è sancita dalla redazione di una
"relazione archeologica definitiva" (comma 2), il cui fine è quello di collocare
l'area interessata dai lavori all'interno di una precisa gerarchia di
definizioni conseguenti l'accertamento della sua rilevanza archeologica:
a) contesti "in cui lo scavo stratigrafico esaurisce direttamente l'esigenza di
tutela";
b) contesti i cui resti "monumentali", non particolarmente conservati,
consentono "interventi di reinterro, smontaggio-rimontaggio e musealizzazione in
altra sede rispetto a quella di rinvenimento";
c) complessi "di particolare rilevanza, estensione e valenza
storico-archeologica" da sottoporre a tutela complessiva, ai sensi del Codice.
Al comma 4 sono indicate le prescrizioni "conseguenti" l'attribuzione del
livello di rilevanza, prescrizioni che si possono così riassumere: nel primo
caso nulla osta alla realizzazione delle opere previste ("verifica... chiusa con
esito negativo... e insussistenza dell'interesse archeologico"), nel secondo
indicazioni relative ad ulteriori interventi da eseguire ("prescrizioni
necessarie ad assicurare la conoscenza") ed alle modalità di conservazione dei
beni ritenuti "archeologicamente rilevanti", nel terzo caso avvio del
procedimento di "dichiarazione di cui agli articoli 12 e 13" del Codice a tutela
dell'area e, evidentemente, modifica sostanziale del progetto o cancellazione
dell'opera.
Ulteriori specificazioni circa la procedura descritta sono demandate alla
linee-guida che, entro 180 giorni dalla data di entrata in vigore della legge di
conversione del decreto, il ministro per i Beni culturali, di concerto con
quello delle Infrastrutture, deve stabilire, al fine di "assicurare speditezza,
efficienza ed efficacia" all'art. 2-quater (comma 6).
Al comma 7 è prevista infine la possibilità per il direttore regionale, su
proposta del soprintendente di settore, di stipulare un accordo con
l'amministrazione appaltante, entro 30 giorni dalla richiesta di avviare la
procedura prevista all'art. 2-quater (in base al comma 3 dell'art. 2-ter) per
coordinare e snellire le procedure, nonché per concordare forme di divulgazione
e valorizzazione dei risultati delle indagini archeologiche.
6. Considerazione conclusive
L'art. 2-quater è certamente molto meglio impostato e più efficace
dell'articolo precedente, tanto è vero che la prima fase di indagini è
considerata integrativa delle procedure preliminari previste all'art. 2-ter, che
sono quindi da valutare come insufficienti.
La prima palese distinzione tra le indagini preliminari da svolgere in base
all'art. 2-ter e quelle previste all'art. 2-quater, fase a), è che le seconde,
in quanto comportanti attività dirette sul terreno, necessitano della direzione
degli organi periferici del ministero.
E saranno proprio le soprintendenze, vista l'oggettiva debolezza delle
potenzialità previsionali delle indagini correlate alla progettazione
preliminare, a cautelarsi per evitare di incorrere nelle situazioni previste dal
comma 6 dell'art. 2-ter, cioè l'emersione, in corso d'opera, di elementi
archeologicamente rilevanti, con tutte le conseguenze negative del caso: fermi
dei lavori, richiesta di saggi "preventivi" (ma perché si parla ancora di saggi
preventivi se il comma 6 riguarda lavori già in corso?), dichiarazione di
importante interesse, comportante modifiche rilevanti o annullamento di un'opera
già iniziata. La richiesta di attivare la procedura di verifica ex art. 2-quater
estesa a tutta la progettazione sarà dunque molto probabilmente la prassi
costante adottata dai soprintendenti più avvertiti.
Se esaminiamo ora in dettaglio le operazioni caratterizzanti la fase a), quella
integrativa alla progettazione preliminare (comma 1), dobbiamo apprezzarne la
coerenza e la flessibilità in diversi contesti operativi.
1) I carotaggi sono, come si è detto, uno strumento essenziale per verificare la
consistenza dei depositi archeologici, nonché per procedere ad una sommaria
valutazione delle diverse fasi insediative; e ciò specialmente in area urbana,
dove la stratificazione storica è particolarmente complessa e generalmente molto
consistente.
2) Le prospezioni geofisiche sono invece utili in aree poco urbanizzate, e
soprattutto quando, come può avvenire nel caso delle indagini propedeutiche la
progettazione preliminare, si è giunti ad avere informazioni sulla natura
dell'insediamento e sul tipo di strutture presenti. E' infatti importante
sottolineare che questa metodologia di indagine risulta proficua solo quando già
si conosce la tipologia strutturale dei resti e la loro profondità
approssimativa. L'esperienza dimostra inoltre che le prospezioni geofisiche (geolettriche
e geomagnetiche) sono poco attendibili per insediamenti con caratteristiche
strutturali legate all'impiego di materiali deperibili, come gli abitati
pre-protostorici o altomedioevali, mentre forniscono ottimi risultati nella
delimitazione e definizione di edifici dotati di vere e proprie strutture
murarie, come ad esempio le ville di età romana. Confesso la mia ignoranza
invece sulle previste "prospezioni geochimiche".
3) I saggi archeologici sono certamente la tecnica di indagine preventiva che
fornisce le informazioni più certe e meglio interpretabili. Se la dislocazione
delle verifiche segue una precisa strategia, che tenga conto anche delle
caratteristiche geomorfologiche del terreno ed eventualmente dei risultati dei
carotaggi, delle ricerche di superficie e delle prospezioni geofisiche, tale
intervento è la base per una progettazione definitiva attendibile. Si tratta
evidentemente di contemperare le esigenze di tipo stratigrafico (per delimitare
in senso verticale i depositi di carattere artificiale e antropico) con quelle
di carattere topografico, al fine di circoscrivere arealmente il deposito
archeologico e verificare caratteristiche e densità degli elementi strutturali
su un'area che rappresenti una base statistica attendibile per la definizione
dei caratteri dell'intero sito. In realtà la realizzazione di trincee potrebbe
essere evitata nel caso in cui le indagini precedenti abbiano evidenziato che ci
si trova in condizioni tali da prevedere una soluzione di tipo a), cioè uno
scavo estensivo che consente, dopo la sua conclusione, l'esecuzione dell'opera.
Per tali situazioni il comma 3 dell'art. 2-quater consente al responsabile del
procedimento di attivare procedure semplificate di progettazione.
A conclusione della valutazione, nel complesso positiva, delle indagini previste
al comma 1 dell'art. 2-quater, non sarà in ogni caso inutile ripetere che gli
scavi archeologici possono riservare sorprese e situazioni non del tutto
prevedibili, ragione per la quale si rendono talvolta necessari, in corso
d'opera, interventi precedentemente non contemplati. Nelle situazioni più
incerte sarebbe dunque opportuno predisporre un costante controllo archeologico
durante i lavori, secondo una prassi che già attualmente molte soprintendenze
per i Beni archeologici mettono in atto per i lavori di carattere
infrastrutturale di maggiore impatto.
La fase b) menzionata al comma 1, legata alla progettazione esecutiva, sarà
certamente oggetto di un maggior approfondimento nelle successive "linee guida"
previste al comma 6, perché si tratta evidentemente di regolamentare scavi
estensivi (difficile ci si possa limitare ad ulteriori sondaggi, già previsti
nella fase a), il cui scopo non è più solo quello di mettere in luce resti e
complessi archeologici, ma anche - come previsto nel caso a) del successivo
comma 2 - di esaurire l'intera stratificazione archeologica per liberare l'area
al fine della realizzazione dell'opera pubblica prevista.
Anche le valutazioni relative ai livelli di rilevanza del sito (comma 2) ed alle
prescrizioni che ne conseguono (comma 4) andranno attentamente normate
attraverso la proposizione di una casistica ampia ed articolata, al fine di
evitare il più possibile, a livello di prassi operativa delle singole
soprintendenze, comportamenti difformi e decisioni sperequate.
E' bene chiarire, anche se sembra implicito nel testo, che la prima soluzione,
"liberatoria", si verifica solo al termine della fase esecutiva:
l'"insussistenza" del bene archeologico è dovuta al fatto che lo scavo completo
e documentato dell'area ha esaurito il deposito archeologico originariamente
conservato. Sembra utile chiarire che in questo caso non si tratta né di
verifica chiusa con esito negativo né di insussistenza (i resti archeologici
erano presenti e sono stati rimossi). Il fatto che lo scavo archeologico
esaurisca le esigenze di tutela presuppone che la scelta della rimozione del
contesto archeologico è stata già presa sulla base dell'esito dei sondaggi e
degli scavi, sulla base della valutazione della natura del deposito
archeologico.
La seconda soluzione aprirà di fatto una fase "di contrattazione" su una serie
di possibilità operative che solo le linee guida dovrebbero chiarire. La terza
soluzione si spera possa emergere nei tempi più rapidi possibili per consentire
varianti al progetto. Tali varianti sono già contemplate dal fatto che siamo
sempre nel campo delle indagini preventive, i cui risultati faranno parte degli
allegati al progetto definitivo/esecutivo.
La "relazione archeologica definitiva, approvata dal soprintendente" costituisce
in sostanza o un nulla-osta, o la richiesta di ulteriori indagini o la sanzione
dell'impossibilità di realizzare l'opera. Sarebbe quindi molto più opportuno
venisse spostata dopo la fase a), quando è già possibile valutare il livello di
rilevanza dell'opera, e prima della fase esecutiva degli scavi archeologici.
Tali scavi estensivi, di cui alla fase b), sia nel caso siano fatti per
rimuovere che per portare alla luce i resti archeologici presuppongono già una
decisione sul da farsi in merito alla rilevanza archeologica dell'area.
Un altro problema ci si attende debba essere sciolto nelle linee-guida: chi
materialmente redige la "relazione archeologica definitiva"? Si dice che il
soprintendente la approva: si intende che a redigerla è chi svolge le indagini
(peraltro dirette dalla stessa soprintendenza)? Bisogna ricordare che tale
relazione contiene anche la qualificazione dei livelli di rilevanza da cui
discendono le prescrizioni.
Resta un altro punto: per chi non attiva la verifica preventiva non è previsto
alcun tipo di sanzione; non è reato, né illecito amministrativo punibile in via
pecuniaria, non implica improcedibilità né blocco dei fondi. Anche questa
questione dovrà essere affrontata.
In conclusione, si può dire, pur con tutte le cautele dovute, che la Legge
109/2005 presenta aspetti positivi, soprattutto perché rappresenta un primo
importante contributo in una materia in cui l'assenza di qualsiasi riferimento
normativo rischiava di portare a situazioni difficilmente controllabili. Resta
moltissimo da fare in proposito, innanzi tutto per quanto riguarda i lavori di
scavo condotti da soggetti privati, poi per individuare i soggetti che possono
svolgere le indagini legate alla progettazione definitiva sotto la direzione
delle soprintendenze (mentre, come abbiamo visto l'art. 2-ter si diffonde
lungamente sui soggetti in grado di svolgere una progettazione di fatto molto
preliminare). Ma il fatto che venga finalmente sancito che in Italia, come nel
resto d'Europa, gli scavi archeologici possano avvenire (come sempre più spesso
è avvenuto negli ultimi anni) per scopi assai diversi dalla mera attività di
ricerca è comunque un'acquisizione molto importante e da non sottovalutare.